Taranto, il ds Montervino: «Sei anni fa fui orgoglioso di riportare allo Iacovone dodicimila persone»

Taranto, il ds Montervino: «Sei anni fa fui orgoglioso di riportare allo Iacovone dodicimila persone»

Quando nasci a Taranto e diventi grande a Napoli ti assumi il rischio della imponderabilità della vita. Il senso delle proprie azioni può sfuggire, il peso della responsabilità si aggrava o si deforma. Francesco Montervino non è simpatico a tutti. Lui lo sa per primo. Forse si chiama personalità, un pizzico di arroganza resta in superficie. Ma basta un soffio di vento per scorgere in quel viso ruvido, la sincerità del suo sguardo.

Nato a Taranto, cresciuto a Napoli. Francesco Montervino non si diventa per caso…
«Napoli può essere considerata una grande Taranto. La cultura tarantina acquisita mi ha permesso di integrarmi in una delle città più grandi d’Italia, di diventarne un simbolo in un certo periodo calcistico. Questa sicurezza che mostro, deriva dalle esperienze fatte, perché il pericolo di sbagliare in certi contesti è sempre dietro l’angolo. E sono tornato a Taranto con questo bagaglio importante».

Stagione 97/98, poco più che maggiorenne diventa capitano del Taranto. Ci spieghi la genesi dell’assegnazione di quella fascia…
«Credo facesse parte di una strategia della società, una volontà di valorizzare un prodotto calcistico locale. Venivo da Parma con certe qualità caratteriali e quella fascia serviva per creare un interesse anche in funzione mercato. Infatti a dicembre passai all’Ancona: prima partita sul campo del Chievo Verona. Entrai nel finale e al 92’ mi procurai il rigore della vittoria».

Cosa ha rappresentato la parentesi di Napoli nella sua carriera?
«Tutto. Sono stato uno degli artefici della rinascita, uno dei giocatori su cui il Napoli è stato ricostruito. Non essere rappresentato sul murales della Ferrovia Cumana? Mi basta sapere che tanti tifosi hanno definito quell’assenza scandalosa. Ma vorrei aggiungere che sono tra i cinque capitani del Napoli più amati, insieme a gente come Maradona, Bruscolotti, Hamsik».

A Taranto questo amore fatica ad emergere nei suoi confronti…
«Di questo mi arrabbio molto. Se a Napoli e Salerno la stima si spreca e si manifesta in innumerevoli modi, perché nella mia città non dovrebbe essere lo stesso? Colpa forse di una mentalità che tende prima a distruggere. Taranto, però, è anche generosa, sa darsi completamente. In questo momento c’è una corazza durissima da rompere. Ci sono due modi: o essere carro armato o goccia cinese. Ho scelto la seconda via per essere apprezzato anche qui».

Da DS, forse, il compito è più articolato che da calciatore…
«Però, pensiamoci bene. Ad Ancona, Napoli, Salerno ho sempre fatto parte di progetti di rinascita con un totale di sei campionati vinti. Gruppi risorti dalle ceneri. Da calciatore, è chiaro, la responsabilità è condivisa. Da direttore sportivo è differente, ma nella mia carriera sono stato sempre abituato a lottare per vincere».

Ha deciso di tornare. Magari le opportunità in giro per l’Italia non mancavano. Perché di nuovo a Taranto?
«Non è stato un errore essere ritornati. Forse era una scelta precoce quella di sei anni fa nonostante i risultati raggiunti. Opportunità più prestigiose? Non è così semplice. Io dico sempre quello che penso, tendo ad andare allo scontro. In grandi società questo non te lo puoi sempre permettere. Ora rispetto a sei anni fa sono meno tifoso e più riflessivo. E poi capisco le dinamiche dello spogliatoio in modo immediato. Dove ho fatto il calciatore sono stato sempre capitano. Una ragione ci sarà».

Stiamo parlando di calcio. Ma anche di calcio di 25 anni fa. La sensazione è che questo sport sia oggi percepito in modo diverso specie dalle giovani generazioni…
«La differenza è nella libertà di cui un bambino poteva disporre ieri rispetto ad oggi. Una serie di attività cognitive che prima si potevano immagazzinare e oggi non si può più. Un genitore prima di mandare un figlio alla scuola calcio vuol sapere se i campi sono in erba perfetta, se le docce funzionano, chi sono i maestri. Prima con due pietre si faceva una porta e si giocava con le scarpe che il giorno dopo non sarebbero più servite. Questo spiego quando faccio il docente a Coverciano nei corsi riguardanti il settore giovanile. Preferivo il calcio di prima. Ma oggi quel calcio non esiste più. E forse Taranto è rimasta indietro al calcio di 25 anni fa, pagando un’arretratezza di carattere organizzativo, senza accettare l’evoluzione che nel frattempo c’è stata».

Cosa vede nel 2021 del Taranto calcio?
«Sei anni fa fui orgoglioso di riportare allo Iacovone 12.000 persone. Ecco, un desiderio sarebbe quello di rivedere uno stadio così pieno. Che Taranto sia una città dove si possa fare calcio e non si continui a dire il contrario. Con le persone giuste si può fare molto. Io finora sono soddisfatto del gruppo che si è formato, della struttura tecnica creata, che va al di là di un attaccante preso o non preso».

Quando ha saputo di avere il Covid cosa ha pensato?
«Ho provato stupore, perché avevo seguito tutte le precauzioni, ma anche perché pensavo di sentirmi indistruttibile. Poi capisci che non hai il fisico di quindici anni prima. Io ho avuto un po’ di tosse e mal di gola: sapere di aver contagiato anche i miei genitori e mia sorella mi ha fatto comprendere che con questo virus non si scherza e non si può sottovalutare».

burbarossonera

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