Può davvero una malformazione congenita sfuggire ai costanti controlli sanitari delle società professionistiche?
Definire “ambigui” gli ultimi tragici episodi che hanno colpito come una scure il calcio mondiale sarebbe un eufenimo.
A parer di chi scrive nascondersi sotto il velo dell’ipocrisia non porta mai alcun vantaggio. Ecco perchè, senza voler emettere alcuna sentenza, ci si limita con il presente articolo ad evidenziare le ragioni che dovrebbero portare chiunque a sostenere che dietro l’angolo si cela, forse, la più grande minaccia doping della storia dello sport mondiale.
La storia ci ha insegnato, anche in virtù dei sempre più frequenti scandali, che il doping è sempre più avanti dell’antidoping; non è un caso che, in numerosi episodi, sia stato evidenziato ed accertato il coinvolgimento di medici e/o esperti chimici che, in molti casi, erano parte dell’organigramma interno alle stesse società.
Non pare opportuno nascondere l’evidenza dei fatti anche se il sistema, a volte, ce lo impone. Gli ultimi orribili episodi, tra cui la morte del giovane giocatore del Livorno Piermario Morosini, pongono inquietanti interrogativi: nel calcio professionistico può davvero sfuggire un problema fisico tale da portare alla morte un ragazzo di soli 25 anni? La risposta è davvero da ricercare in un omesso controllo o, invece, nella minaccia del doping?
Le informazioni seguenti serviranno per maturare un opinione.
Il 28 Aprile 1995 viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.M. 13/03/1995 “Norme per la tutela sanitaria degli sportivi professionisti” colmando un vuoto legislativo assai imbarazzante nonostante il risalto dato in Italia allo sport professionistico. L’intervento legislativo giunse a seguito dell’impulso fornito da numerose Federazioni nazionali che già si erano dotate di regolamenti volti a disciplinare il controllo sanitario dell’attività sportiva professionistica praticata dai loro iscritti.
I punti chiave del Decreto, indirizzato alla tutela del corretto esercizio dell’attività sportiva professionistica, sono l’istituzione della scheda sanitaria e la definizione del ruolo di medico sociale.
Si ricorda che, alla luce della Legge 91/1981, per professionista sportivo si intende colui il quale “esercita attività sportiva a favore di una società o federazione sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI che hanno riconosciuto il professionismo”.
Il Decreto subordina l’attività sportiva professionistica al possesso, da parte dell’atleta, della cosidetta “scheda sanitaria” prevista dall’art. 7, comma 2, della legge 23 marzo 1981, n.91 che accompagnerà l’atleta per l’intera durata della sua attività sportiva professionistica e che dovrà essere aggiornata con periodicità almeno semestrale.
Il Decreto stabilisce che le Federazioni sportive nazionali debbono integrare i propri regolamenti prevedendo la figura del medico federale e sociale, munito di una specifica specializzazione in medicina dello sport.
Nella scheda sanitaria suindicata, custodita dal medico incaricato, devono essere annotati tutti i controlli sanitari effettuati e, in caso di trasferimento dell’ atleta, deve essere trasmessa da una società all’altra. La scheda attesta l’avvenuta effettuazione degli accertamenti sanitari prescritti e contiene una sintetica valutazione medico-sportiva dello stato di salute attuale dell’atleta nonché sull’esistenza di eventuali controindicazioni, anche temporanee, alla pratica sportiva agonistica professionistica.
Le implicazioni medico legali e legali che discernono da questi 2 articoli sono ovvie: il medico sociale, così come la società sportiva, vengono fortemente responsabilizzati in merito alla tutela dei propri tesserati.
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 della legge 23 marzo 1981, n.91, il medico sociale assume la responsabilità della tutela della salute degli atleti professionisti legati da rapporto di lavoro subordinato con la società sportiva.
Il medico sociale cura, avvalendosi dei centri di medicina dello sport pubblici o privati autorizzati e accreditati dalle regioni o dalle province autonome, l’effettuazione periodica dei controlli ed accertamenti clinici previsti e cura l’effettuazione di ogni altro ulteriore accertamento che egli ritenga opportuno; lo stesso è tenuto alla verifica costante dello stato di salute dell’atleta e dell’esistenza di eventuali controindicazioni, anche temporanee, alla pratica dell’attività professionale.
La complessità di tali aspetti costituiscono punti di una responsabilità professionale di tipo contrattuale ed extracontrattuale assai delicata, considerate anche le complesse questioni sul doping e sull’uso terapeutico di sostanze proibite o sull’uso difforme di farmaci rispetto alle indicazioni terapeutiche e/o ai dosaggi previsti.
Il riferimento al medico sociale nella normativa federale del calcio professionistico è nell’art. 44 delle NOIF “Adempimenti per la tutela medico sportiva delle società professionistiche”. Con tale articolo viene imposto alle società di sottoporre i calciatori, gli allenatori, i direttori tecnici ed i preparatori atletici professionisti agli accertamenti sanitari previsti dalle leggi, dai regolamenti e dalle presenti disposizioni.
Ogni società ha l’obbligo di tesserare un Medico sociale responsabile sanitario iscritto in un apposito elenco presso il Settore Tecnico della F.I.G.C..
L’art. 5 comma 4 della legge n. 1099/1971, attribuisce ai medici incaricati dei prelievi la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria durante l’espletamento di tale incarico. In quanto rappresentanti della polizia giudiziaria, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 347 c.p.p., i medici hanno l’obbligo:
a) di acquisire le notizie di reato; b) di riferire, per iscritto e senza ritardo, al pubblico ministero gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi raccolti, indicando le fonti di prova e eventuali le attività compiute, trasmettendo la relativa documentazione; c) di comunicare, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro utili ai fini della identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.
Sulla scorta di tali imposizioni il medico sportivo che, nell’esercizio della sua attività, venga a conoscenza di un fatto costituente reato, perseguibile d’ufficio, ha l’obbligo di denunciarlo all’autorità giudiziaria, pena la incriminazione per omissione di referto.
Se il reato di cui è venuto a conoscenza è uno di quelli previsti dalla normativa antidoping, il medico reticente risponde del più grave delitto di omessa denuncia, punto con la reclusione fino ad un anno (art. 362, comma 2 codice penale).
Le società e gli enti sportivi rispondono in proprio della omessa attuazione delle procedure di controllo della idoneità fisica degli atleti per le prestazioni svolte come lavoratori dipendenti. Le società sportive sono tenute a tutelare la salute degli atleti sia attraverso la prevenzione degli eventi pregiudizievoli della loro integrità psicofisica sia attraverso la cura degli infortuni e delle malattie che possono trovare causa nei rilevanti sforzi caratterizzanti la pratica professionale.
Alla luce di quanto fin qui esposto quale può essere la causa della morte di un giovane atleta professionista di soli 25 sottoposto a continui controlli sanitari continuamente aggiornati e verificati?
Avv. Cristian Zambrini (www.studiolegalezambrini.it)
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